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- A proposito di didattica e storia contemporanea
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A proposito di didattica e storia contemporanea
LA PAROLA ALLO STORICO
Intervista al prof. Giovanni De Luna
Docente di storia contemporanea presso l'Università di Torino
A cura di
Francesca Dematté
1. L’insegnamento della storia recente
A 15 anni di distanza dall’apparizione delle riflessioni su identità e metodi della storia contemporanea apparse in Insegnare gli ultimi 50 anni, [La Nuova Italia, Firenze, 1992]. I bisogni vitali della storia contemporanea sono ancora l’interdisciplinarietà, in particolare il rapporto con le scienze sociali; l’uso di nuove fonti, in particolare di quelle orali; la comparazione come ambito strategico di confronto per le guerre; il rapporto con i media inteso come ambito di produzione di nuove fonti per la conoscenza storica?
I bisogni vitali restano quelli, ma i progressi sono stati rilevanti. C’è da dire, infatti, che mentre allora quei “bisogni” rappresentavano ancora dei territori di frontiera, oggi complessi documentari come le fonti orali sono entrati stabilmente nello statuto scientifico della storia contemporanea, così come la comparazione, l’interdisciplinarietà - (declinata non più secondo i “binomi” tradizionali, - economia e storia, antropologia e storia, psicanalisi e storia, ecc…- ma vista come un incrocio tra discipline diverse per studiare di volta in volta un determinato “oggetto” storiografico) - e, più faticosamente, il rapporto con i media.
2. Media e rappresentazione storica nell’insegnamento
Il rapporto fra media e storia mette in gioco il segno lasciato dai media nella storia contemporanea. Per esempio il fatto che i media hanno ridefinito in profondità anche i modelli della rappresentazione del passato, intrecciando diversi generi e puntando sull’assunto metodologico della “Storia di tutti”, come ha evidenziato Peppino Ortoleva. Allora, insegnare storia con i media, in particolare, con il web quale segno può portare nella didattica della storia?
Il web è una risorsa. I motori di ricerca, i metasiti, le banche dati, insomma tutti gli strumenti che costituiscono il corrispettivo dei volumi bibliografici e dei repertori consultabili nelle biblioteche e negli archivi sono di straordinaria utilità per lo storico. Ma il loro uso comporta significativi cambiamenti sul piano della narrazione, della ricerca e della didattica.
La scrittura: il testo assume un carattere permanentemente provvisorio.
Le fonti: nuovi problemi di critica delle fonti; autenticità e esattezza, critica interna e critica esterna si erano basate tutte sull’oggetto materiale in cui era ospitato il documento. A smascherare i diari di Hitler (la firma sembrava autentica) fu la carta, prodotta dopo il 1945. Non solo; le note a piè di pagina sono l’ambito di un colloquio con il lettore, quello in cui lo storico rende riconoscibili il presupposto della propria narrazione. Invece i documenti conservati in forma digitale :
a) sono immateriali;
b) sono dinamici, come i testi scritti (volatilità del web);
c) sono fragili (un nastro, un disco, un CD, una durata media di 5 anni).
Tutto questo materiale risente della natura particolarmente instabile, provvisoria e in costante movimento del mondo digitale e della rete. La certezza dell’identificazione dell’autore del documento, della sua intenzionalità, la verifica della sua autenticità e esattezza, tutti i capisaldi della tradizionale critica storica delle fonti precipitano, insomma, in quello che Stefano Vitali ha definito “il mondo piatto della rete”, un mondo che “tende a opacizzare il contesto di origine e di riferimento dell’informazione, riducendolo in genere a una sorta di rumore di fondo” [in Passato digitale. Le fonti dello storico nell’era del computer, Bruno Mondadori, Milano, 2004]. Di qui la necessità di una nuova critica delle fonti: nuova attenzione alle procedure di produzione e alle condizioni di conservazione del documento. Non è solo un problema di autenticazione “per legge” ma anche di percezioni, usi, tradizioni, ecc….A garantire l’autorevolezza delle fonti interviene anche la stretta interdipendenza del lavoro degli storici, l’organizzazione sociale della ricerca e della memoria, le stratificazioni tecnologiche, culturali e sociali che confluiscono nel documento.
La didattica: per quanto riguarda la didattica, il dato di partenza è che gli studenti usano sempre google o altro. La rete ha cambiato le vecchie coordinate cartacee dell’accesso al sapere storico. In queste scorribande, ci si imbatte in siti disgustosi (la presenza del negazionismo sul web è straripante), di dubbia autenticità, con cadute verso la fantasy o i videogiochi. In questa ottica, l’insegnante viene chiamato a un compito radicalmente nuovo, di “certificazione” dei siti utilizzati dagli studenti.
Anche quando si rinvia a un sito, a un archivio, a una banca dati…… non ci si dovrebbe limitare a fornire istruzioni più o meno dettagliate per la loro proficua utilizzazione, ma si dovrebbero descrivere le loro caratteristiche complessive, la loro struttura logica, i criteri adottati nel trattamento delle informazioni,ecc….. Perciò privilegiare archivi, biblioteche, musei, insomma istituzioni ufficiali.
3. Periodizzazione della storia del ‘900
È ancora dell’avviso che nel 1989 sia davvero finita la storia del ‘900?
Certamente si. Nel caso delle guerre di cui mi sto occupando, la discontinuità tra quelle novecentesche e quelle di oggi mi pare netta e sempre più confermata dalla ricerca. Alle forme di guerra classica che ancora sopravvivono si sono affiancate quelle che possiamo definire “la guerre postnazionali”, segnate dal passaggio “dal monopolio della violenza al mercato della violenza” e che corrispondono a situazioni di crisi del tutto diverse da quelle che comportano l’organizzazione e l’impiego statali della violenza.
Dopo l’11 settembre 2001 questa tendenza si è manifestata nitidamente. Territorio nazionale violato, confini statuali ridicolizzati, azzeramento della distinzione tra nemico interno e nemico esterno: le caratteristiche di quell’attentato sono state tali da mettere in discussione tutti i termini tradizionali della sovranità, segnando anche una rottura drastica nei confronti del terrorismo del Novecento. Questo si contrapponeva allo Stato replicandone strutture e comportamenti, ma restando tutto interno alla logica della statualità politica; lo sfidava alla radice, insidiandogli il monopolio della violenza e della forza armata. L’attentato dell’11 settembre fuoriesce invece in modo drammatico dagli orizzonti della statualità. Lo testimoniano i suoi bersagli/simbolo, un “cuore dello Stato” identificato non soltanto con i centri del potere istituzionale (Pentagono e Casa Bianca) ma anche e soprattutto con quelli del potere economico-finanziario. Iperterrorismo, lo si definisce; un terrorismo con una visione apocalittica del conflitto, in grado di sfruttare perfettamente i vantaggi offerti dalla globalizzazione e dal liberismo soprattutto per quanto riguarda le risorse finanziarie a cui attingere: grazie ai mercati off-shore e alle organizzazioni non governative a loro legate, in grado di reinvestire senza problemi i guadagni ottenuti da operazioni criminali, traffici illegali, aiuti economici ricevuti dai simpatizzanti. La risposta dell’America di Bush si è mossa nella stessa direzione globale. Oggi la “confessionalità” è il registro ideologico delle guerra postnovecentesca, si combatte in nome di Dio, e la dimensione laica delle categorie ”amico” e “nemico” viene dissolta in un universo in cui l’avversario diventa un alleato del Diavolo, un ostacolo all’espandersi del bene da rimuovere, da cancellare. Non esiste più lo justus hostis; non più la sconfitta militare ma l’annientamento del nemico rappresenta così l’unico scopo plausibile della guerra. Questa è la novità della guerra più difficile da accettare, psicologicamente e politicamente, per noi occidentali. Non più un simmetrico esercizio di azioni e reazioni tra due contendenti giuridicamente alla pari, uno scontro carico di orrore ma a suo modo prevedibile con le sue regole e i suoi riti, ma guerra a senso unico che sempre include la possibilità di una risposta asimmetrica e irrazionale, il terrorismo, i kamikaze, la ”guerra santa” propugnata dal fondamentalismo islamico. Nata per combattere il terrorismo, la guerra “globalizzata” lo trasforma in un fenomeno endemico, in una condizione permanente del sistema politico internazionale.
4. I laboratori nella formazione degli insegnanti
Ogni storico costruisce la conoscenza mediante operazioni che possiamo considerare laboratoriali e, infatti, l'”atelier” è una delle metafore usate in metodologia. E ci sono dei settori dove lo storico deve lavorare in veri e propri laboratori: si pensi agli archeologi, per un verso, e, dall’altro, ai contemporaneisti che fanno uso di fonti sonore o audiovisive....
I laboratori non dovrebbero diventare strutturali nei corsi di laurea letterari sia nella formazione di insegnanti che in quella dei candidati alla ricerca storica?
I laboratori debbono diventare strutturali. È solo così che, declinando il binomio storia/media, è possibile raggiungere un obbiettivo didattico fondamentale, che prescinde dalla pura e semplice trasmissione del sapere storico; mi riferisco alla possibilità di indurre consapevolezza critica e vigilanza intellettuale nell’uso dei media, quasi che l’imparare a lavorare con i media possa capovolgere il tradizionale rapporto di subalternità di chi si limita a consumare il cinema, la televisione, la fotografia, ecc…
Ricordiamo e suggeriamo ai nostri soci e lettori le recensioni di alcuni dei libri scritti da Giovanni De Luna presenti sul nostro sito.