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Processo all'Olocausto

D. D. GUTTENPLAN, PROCESSO ALL'OLOCAUSTO - ED. CORBACCIO, MILANO, 2001

RECENSIONE DI VINCENZO GUANCI

Ecco un libro noioso, di cui bisogna, tuttavia, ringraziare l’autore. Guttenplan 2001
D. D. Guttenplan è un giornalista americano che scrive un reportage su un processo. Non si tratta, però, di un reportage qualsiasi perché il processo non è un processo qualsiasi. Una ricercatrice americana, Deborah Lipstadt, scrisse un libro, Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory, in cui contestava le teorie negazioniste sull’esistenza dei campi di sterminio nazisti; in particolare, attaccava lo storico inglese David Irving, presentandolo come figura chiave di un movimento teso a riabilitare il nazismo, che a questo fine manipola l’evidenza storica, giungendo a negargli perfino la qualifica stesso di “storico”.

Nel luglio 1996 Irving citò per diffamazione la Lipstadt. Il processo ha avuto inizio l’11 gennaio 2000 davanti alla Royal Court of Justice di Londra. L’11 aprile è stata pronunciata la sentenza. Se la Lipstadt fosse stata condannata si sarebbe implicitamente data una patente di “serietà” alle teorie aberranti di Irving e dei suoi sodali. Non è stato così. Ma, come Guttenplan racconta, non è stato affatto facile per gli avvocati della Lipstadt pervenire a questo risultato apparentemente scontato. Essi hanno dovuto dimostrare: 

  • che Auschwitz e gli altri campi di sterminio facevano parte di un progetto diretto ad uccidere sistematicamente tutte le persone di etnia ebraica;
  • che Irving nei suoi scritti ha manipolato la documentazione per dimostrare l’inesistenza di tale progetto.

L’hanno fatto producendo montagne di documenti, riducendo al minimo le testimonianze dei sopravvissuti, soprattutto confutando minuziosamente la documentazione prodotta da Irving, cogliendo con rigore e metodologie investigative di tipo giudiziario ogni piccola contraddizione nelle argomentazioni di Irving e dei suoi testimoni.

A noi leggere della Shoah come oggetto di una disputa giudiziaria, oltre a fare una certa spiacevole impressione, risulta una lettura per nulla scorrevole e spesso sgradevolmente spiazzante. I protagonisti, infatti, sono David Irving e gli avvocati della Lipstadt, non le comunità ebraiche, i nazisti e i campi. Ma proprio qui sta la particolarità del libro. La Shoah  viene ad essere “provata” in un’aula giudiziaria, attraverso un dibattito tra storici condotto da avvocati, che “interrogano” e “contro-interrogano”, aldilà della memoria dei sopravvissuti.

Le 333 pagine della sentenza finalmente dimostrano assolutamente infondata la tesi di Irving che “Hitler, ben lungi dall’essere l’istigatore della distruzione degli ebrei, era a questo proposito un ostacolo” (p.122).

Sui campi di sterminio il giudice così si esprime: “La questione fondamentale su cui devo decidere è se l’evidenza disponibile, considerata nella sua totalità, potrebbe convincere uno storico obiettivo e ragionevole che Auschwitz non fu soltanto uno dei tanti campi di concentramento o di lavoro creati dal regime nazista, ma servì altresì da campo della morte o di sterminio, dove centinaia di migliaia di ebrei furono sistematicamente messi a morte nelle camere a gas durante il periodo che va dagli ultimi mesi del 1941 fino al 1944” (p. 286). Dopo aver esposto ed analizzato scrupolosamente le prove e le argomentazioni dell’una e dell’altra parte il giudice arriva alla conclusione “che nessuno storico obiettivo ed equanime avrebbe seri motivi di dubitare che ad Auschwitz vi fossero camere a gas e che siano state fatte funzionare su vasta scala allo scopo di uccidere centinaia di migliaia di ebrei.” (p. 291).

Naturalmente non avevamo dubbi né avevamo bisogno di una sentenza di un tribunale di Sua Maestà Britannica per ricordarci della tragedia del popolo ebraico. Non è questo il punto.

Non so se a Carlo Ginzburg questa vicenda e questo libro abbiano destato un qualche interesse; certo è che mai come in questo caso la commistione tra “il giudice e lo storico” è parsa in così tanta evidenza!

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